Napoli ,12 luglio 2008
Carissimi,
è con la rabbia in corpo che vi scrivo questa lettera dai bassi di Napoli, dal Rione Sanità nel cuore di quest'estate infuocata.
La mia è una rabbia lacerante perché oggi la Menzogna è diventata la Verità. Il mio lamento è così ben espresso da un credente ebreo nel Salmo 12
" Solo falsità l'uno all'altro si dicono:
bocche piene di menzogna,tutti a nascondere ciò che tramano in cuore. Come rettili strisciano, e i più vili emergono, è al colmo la feccia."
Quando ,dopo Korogocho,ho scelto di vivere a Napoli , non avrei mai pensato che mi sarei trovato a vivere le stesse lotte. Sono passato dalla discarica di Nairobi, a fianco della baraccopoli di Korogocho alle lotte di Napoli contro le discariche e gli inceneritori.Sono convinto che Napoli è solo la punta dell'iceberg di un problema che ci sommerge tutti.Infatti, se a questo mondo, gli oltre sei miliardi di esseri umani vivessero come viviamo noi ricchi (l'11% del mondo consuma l'88% delle risorse del pianeta!) avremmo bisogno di altri quattro pianeti come risorse e di altro quattro come discariche ove buttare i nostri rifiuti. I poveri di Korogocho, che vivono sulla discarica, mi hanno insegnato a riciclare tutto , a riusare tutto, a riparare tutto, a rivendere tutto, ma soprattutto a vivere con sobrietà.
E' stata una grande lezione che mi aiuta oggi a leggere la situazione dei rifiuti a Napoli e in Campania, regione ridotta da vent'anni a sversatoio nazionale dei rifiuti tossici.Infatti esponenti della camorra in combutta con logge massoniche coperte e politici locali, avevano deciso nel 1989 ,nel ristorante "La Taverna" di Villaricca", di sversare i rifiuti tossici in Campania. Questo perché diventava sempre più difficile seppellire i nostri rifiuti in Somalia. Migliaia di Tir sono arrivati da ogni parte di Italia carichi di rifiuti tossici e sono stati sepolti dalla camorra nel Triangolo della morte (Acerra-Nola- Marigliano), nelle Terre dei fuochi ( Nord di Napoli ) e nelle campagne del Casertano. Questi rifiuti tossici
"bombardano" oggi ,in particolare i neonati, con diossine,nanoparticelle che producono tumori, malformazioni , leucemie……
Il documentario Biutiful Cauntri esprime bene quanto vi racconto.
A cui bisogna aggiungere il disastro della politica ormai subordinata ai potentati economici-finanziari.Infatti questa regione è stata gestita dal 1994 da 10 commissari straordinari per i rifiuti ,scelti dai vari governi nazionali che si sono succeduti.( E' sempre più chiaro, per me, l'intreccio fra politica, potentati economici-finanziari, camorra, logge massoniche coperte e servizi segreti!). In 15 anni i commissari straordinari hanno speso oltre due miliardi di euro, per produrre oltre sette milioni di tonnellate di "ecoballe" , che di eco non hanno proprio nulla: sono rifiuti tal quale, avvolti in plastica che non si possono nè incenerire (la Campania è già un disastro ecologico!) né seppellire perché inquinerebbero le falde acquifere. Buona parte di queste ecoballe, accatastate fuori la città di Giugliano, infestano con il loro percolato quelle splendide campagne denominate "Taverna del re ".
E così siamo giunti al disastro! Oggi la Campania ha raggiunto gli stessi livelli di tumore del Nord-Est, che però ha fabbriche e lavoro.Noi,senza fabbriche e senza lavoro, per i rifiuti siamo condannati alla stessa sorte.Il nostro non è un disastro ecologico-lo dico con rabbia- ma un crimine ecologico, frutto di decisioni politiche che coprono enormi interessi finanziari. Ne è prova il fatto che Prodi, a governo
scaduto, abbia firmato due ordinanze:una che permetteva di bruciare le ecoballe di
Giugliano nell'inceneritore di Acerra, l'altra che permetteva di dare il Cip 6 ( la bolletta che paghiamo all'Enel per le energie rinnovabili) ai 3 inceneritori della Campania che "trasformano la merda in oro- come dice Guido Viale-Quanto più merda , tanto più oro!"
Ulteriore rabbia quando il governo Berlusconi ha firmato il nuovo decreto n.90 sui rifiuti in Campania. Berlusconi ci impone , con la forza militare, di costruire 10 discariche e quattro inceneritori. Se i 4 inceneritori funzionassero, la Campania dovrebbe importare rifiuti da altrove per farli funzionare. Da solo l'inceneritore di Acerra potrebbe bruciare 800.000 tonnellate all'anno! E' chiaro allora che non si vuole fare la raccolta differenziata, perché se venisse fatta seriamente (al 70%), non ci sarebbe bisogno di quegli inceneritori.E' da 14 anni che non c'è volontà
politica di fare la raccolta differenziata. Non sono i napoletani che non la vogliono, ma i politici che la ostacolano perché devono ubbidire ai potentati economici-finanziari promotori degli inceneritori. E tutto questo ci viene imposto con la forza militare vietando ogni resistenza o dissenso, pena la prigione. Le conseguenze di questo decreto per la Campania sono
devastanti. "Se tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge (articolo 3 della Costituzione), i Campani saranno meno uguali, avranno meno dignità sociale-così afferma un recente Appello ai Parlamentari Campani Ciò che è definito "tossico" altrove, anche sulla base normativa comunitaria, in Campania non lo è; ciò che altrove è considerato "pericoloso"qui non lo sarà. Le regole di tutela ambientale e salvaguardia e controllo sanitario, qui non saranno in vigore. La polizia giudiziaria e la magistratura in tema di repressione di violazioni della normativa sui rifiuti , hanno meno poteri che nel resto d'Italia e i nuovi tribunali
speciali per la loro smisurata competenza e novità, non saranno in grado di tutelare, come altrove accade, i diritti dei Campani".
Davanti a tutto questo, ho diritto ad indignarmi. Per me è una questione etica e morale. Ci devo essere come prete, come missionario. Se lotto contro l'aborto e l'eutanasia, devo esserci nella lotta su tutto questo che costituisce una grande minaccia alla salute dei cittadini campani. Il decreto Berlusconi straccia il diritto alla salute dei cittadini Campani.
Per questo sono andato con tanta indignazione in corpo all'inceneritore di Acerra, a contestare la conferenza stampa di Berlusconi , organizzata nel cuore del Mostro, come lo chiama la gente. Eravamo pochi, forse un centinaio di persone. (La gente di Acerra, dopo le botte del 29 agosto 2004 da parte delle forze dell'ordine,è terrorizzata e ha paura di scendere in campo. Abbiamo tentato di dire il nostro no a quanto stava accadendo. Abbiamo distribuito alla stampa i volantini: "Lutto cittadino. La democrazia è morta ad Acerra. Ne danno il triste annuncio il presidente Berlusconi e il sottosegretario Bertolaso. "Nella conferenza stampa (non ci è stato permesso parteciparvi!) Berlusconi ha chiesto scusa alla Fibe per tutto
quello che ha "subito" per costruire l'inceneritore ad Acerra!(Ricordo che la Fibe è sotto processo oggi!. Uno schiaffo ai giudici! Bertolaso ha annunciato che aveva firmato il giorno prima l'ordinanza con la Fibe perché finisse i lavori! Poi ha annunciato che avrebbe scelto con trattativa privata, una delle tre o quattro ditte italiane e una straniera, a gestire i rifiuti. Quella italiana sarà quasi certamente la A2A (la multiservizi di Brescia e Milano) e quella straniera è la Veolia, la più grande multinazionale dell'acqua e la seconda al mondo per i rifiuti. Sarà
quasi certamente Veolia a papparsi il bocconcino e così, dopo i rifiuti, si papperà anche l'acqua di Napoli. Che vergogna! E' la stravittoria dei potentati economici-finanziari, il cui unico scopo è fare soldi in barba a tutti noi che diventiamo le nuove cavie. Sono infatti convinto che la Campania è diventata oggi un ottimo esempio di quello che la Naomi Klein nel suo libro Shock Economy, chiama appunto l'economia di shock! Lì dove c'è emergenza grave viene permesso ai potentati economico-finanziari di fare cose che non potrebbero fare in circostanze normali. Se funziona in Campania, lo si ripeterà altrove. (New Orleans dopo Katrina insegna!).
E per farci digerire questa pillola amara, O' Sistema ci invierà un migliaio di volontari per aiutare gli imbecilli dei napoletani a fare la raccolta differenziata, un migliaio di alpini per sostenere l'operazione e trecento psicologi per oleare questa operazione!! Ma a che punto siamo arrivati in questo paese!?! Mi indigno profondamente! E proclamo la mia solidarietà a questo popolo massacrato! " Padre Alex e i suoi fratelli " era scritto in una fotografia apparsa su Tempi (inserto di La Repubblica ). Sì, sono fiero di essere a Napoli in questo momento così tragico con i miei fratelli(e sorelle) di Savignano Irpino,espropriati del loro terreno seminato a novembre, con i miei fratelli di Chiaiano, costretti ad accedere nelle
proprie abitazioni con un pass perchè sotto sorveglianza militare .
Per questo, con i comitati come Allarme rifiuti tossici, con le reti come Lilliput e con tanti gruppi, continueremo a resistere in Campania. Non ci arrenderemo.
Vi chiedo di condividere questa rabbia, questa collera contro un Sistema economico-finanziario che ammazza ed uccide non solo i poveri del Sud del mondo, ma anche i poveri nel cuore dell'Impero. Trovo conforto nelle parole del grande resistente contro Hitler, il pastore luterano danese, Kaj Munk ucciso dai nazisti nel 1944 "Qual è dunque il compito del predicatore oggi? Dovrei rispondere: fede, speranza e carità. Sembra una bella risposta. Ma vorrei dire piuttosto :coraggio. Ma no,neppure questo è abbastanza provocatorio per costituire l'intera verità.....Il nostro compito oggi è la temerarietà.. Perchè ciò di cui come Chiesa manchiamo non è certamente né di psicologia né di letteratura.Quello che a noi manca è una santa
collera."
Davanti alla Menzogna che furoreggia in questa regione campana, non ci resta che una santa collera. Una collera che vorrei vedere nei miei concittadini, ma anche nella mia Chiesa. "I simboli della Chiesa Cristiana sono sempre stati il leone, l'agnello, la colomba e il pesce - diceva sempre Kaj Munk - Ma mai il camaleonte."
Vi scrivo questo al ritorno della manifestazione tenutasi nelle strade di Chiaiano, contro l'occupazione militare della cava. Invece di aspettare il giudizio dei tecnici sull'idoneità della cava, Bertolaso ha inviato l'esercito per occuparla. La gente di Chiaiano si sente raggirata, abbandonata e tradita.
Non abbandonateci. E' questione di vita o di morte per tutti. E' con tanta rabbia che ve lo scrivo.
Resistiamo!
Alex Zanotelli
Kossiga docet... Scuola, scontri in piazza Navona
domenica 20 luglio 2008
sabato 12 luglio 2008
Aldrovandi vittima negata
Smentire tutto, anche l’evidenza. A tre anni dalla tragedia, parlano per la prima volta i poliziotti imputati per la morte del giovane Federico Aldrovandi. Giurano di averlo colpito solo alle gambe e che lui «stava benissimo». La loro versione è contraddetta dai testimoni e dai loro stessi dialoghi
di Sofia Basso da LEFT
Quattro poliziotti armati di manganello e un ragazzo che muore solo, ammanettato, faccia a terra. Hanno provato a negare tutto, gli agenti imputati per l’omicidio colposo del giovane Federico Aldrovandi. Ma non hanno potuto smentire il tragico epilogo di quell’alba del 25 settembre 2005, quando il diciottenne ferrarese fu fermato da una pattuglia di polizia che lo trova vivo e lo lascia morto sull’asfalto di un’appartata via della cittadina estense. Parlano per la prima volta i quattro agenti, dopo mille giorni di ostinato silenzio e nove mesi di processo, ma non si preoccupano di offrire una spiegazione verosimile dell’accaduto. Una dinamica «incredibile» anche per loro, che giurano che Federico «stava benissimo» prima dell’intervento dei sanitari che ne constatano il decesso e dell’arrivo dei medici legali che lo fotografano livido e tumefatto in una pozza di sangue. Non hanno idea di come si sia procurato le ferite alla testa e allo scroto, dichiarano in aula il 26 giugno scorso: «Forse quando finisce a cavalcioni sullo spigolo della portiera dell’auto e poi cade in avanti, per poi rialzarsi come se niente fosse». Eppure due dei loro sfollagente quella mattina si spezzano all’altezza del manico. E la chiamata alla centrale del capo pattuglia Enzo Pontani è inequivocabile: «L’abbiamo bastonato di brutto. Adesso è svenuto, non so… È mezzo morto». «Una frase detta così, una maniera di dire che non significa niente - si giustifica l’interessato, incalzato dal pm Nicola Proto - anche l’Italia contro l’Olanda è stata bastonata di brutto». Capelli biondi fluenti, tono sicuro, Pontani ci tiene ad aggiungere che sarebbe «assurdo colpire una persona distesa». Eppure è proprio quello che i testimoni hanno visto: quattro agenti di polizia che si accaniscono sul ragazzo anche quando è a terra e implora aiuto.
Bello, alto, magro, Federico viene descritto da Pontani, una decina di chili più del ragazzo e 15 anni di esperienza sulla strada, come un «energumeno di 100 chili, scuro, con il collo taurino e gli occhi fuori dalla testa», che sbuca all’improvviso dall’ombra di un parchetto urlando e ringhiando per aggredirlo con sforbiciate, calci e pugni. Lui li schiva tutti. «Sembrava che avesse voluto mangiarmi la testa», precisa per evocare la pericolosità del giovane, disarmato e incensurato, seppure in stato d’agitazione, come riferì la signora che chiamò il 112, spaventata dalla presenza di un giovane «che sbatteva dappertutto». Per rincarare la dose, Pontani aggiunge un particolare mai emerso prima: durante la colluttazione, Aldrovandi avrebbe addirittura tentato di sfilargli la pistola. Un dettaglio che non compare neppure nella relazione di servizio. Anche Luca Pollastri, il compagno di volante di Pontani, più che di uno studente che rincasa dopo una nottata con gli amici in un centro sociale di Bologna dove, certo, girava anche qualche acido, racconta di una «furia scatenata» che avanza «con aria minacciosa», urlando «a denti stretti e bocca aperta». Era «carico, digrignava i denti», gli fa eco Paolo Forlani, della seconda volante, intervenuta quando la prima chiese rinforzi. «Erano più ringhi che urla. Aveva gli occhi sbarrati. E fissava... Sembrava un automa», ribadisce la sua collega di pattuglia, Monica Segatto, che si presenta pallida e tesa al banco degli imputati.
Deposizioni fiume, quelle dei quattro agenti che fino a quel momento si erano avvalsi della facoltà di non rispondere, mirate però più a smontare i capi d’accusa che non a convincere gli ascoltatori. Più volte, infatti, dal fondo della torrida e strapiena aula B del tribunale di Ferrara si solleva un brusio di incredulità. Come quando Pontani racconta che lo sfollagente del collega Forlani si rompe per un calcio di Federico. Il secondo manganello, dichiara Pollastri, si spezza quando il poliziotto cade a terra assieme al ragazzo nel tentativo di immobilizzarlo. Loro, sostengono, non l’hanno mai colpito, se non alle gambe. Soprattutto, i quattro imputati insistono nel dire che l’ambulanza la chiamarono subito anche se arrivò solo quand’era troppo tardi e che Aldrovandi non ha mai dato segni di sofferenza. Anzi, il loro timore è sempre stato che si rialzasse. Se non usarono il defibrillatore che avevano in dotazione fu perché più volte avevano verificato che respirava. Eppure la dottoressa fu chiarissima nella sua deposizione: quando il 118 intervenne, il cuore aveva smesso di battere da parecchi minuti e infatti i tentativi di salvarlo furono vani.
Uno dopo l’altro, gli imputati negano che il giovane chiedesse aiuto perché non riusciva più a respirare. Scuote la testa con sofferenza muta, Lino Aldrovandi, padre di Federico, che segue il processo in piedi, appoggiato contro il muro. Anche Patrizia Moretti, determinata nella sua richiesta di verità e giustizia per il figlio fin da quando impedì l’archiviazione del caso aprendo un blog, fatica ad ascoltare gli agenti coinvolti nella morte del suo Federico: «Non ci aspettavamo niente dalla loro deposizione. Però fa male lo stesso, fa molto male. Nel loro racconto sembrano accantonare, dimenticare, quello che hanno fatto, l’effetto di quelle loro azioni che ritengono tanto professionali. Non gli ha mai nemmeno sfiorato l’idea di dire “mi dispiace”. La cosa che mi ha addolorata di più, in questa versione paradossale, è stato quando hanno detto che gli tenevano la mano sulla schiena per fargli sentire la loro presenza. Purtroppo l’ha sentita eccome. Sappiamo, e gli effetti ne sono la prova più grande, che l’hanno schiacciato a terra finché non è arrivata l’ambulanza».
La linea della difesa non convince nemmeno la parte civile: «Da agenti di polizia si poteva pensare che dessero una spiegazione credibile di quello che è accaduto, invece si sono trincerati dietro risposte che respingono a tutto campo i profili dell’accusa senza preoccuparsi di un racconto che anche un elementare vaglio di buon senso fa ritenere del tutto inverosimile», dice l’avvocato Alessandro Gamberini, che sostiene la famiglia assieme a Fabio Anselmo, Riccardo Venturi e Beniamino Del Mercato. «La verità è che, comunque si difendano, la coperta è troppo corta perché riguarda il prima, il durante e il dopo: gli agenti non hanno affatto chiesto nell’immediatezza l’ambulanza, hanno bloccato Federico in una forma così violenta e compulsiva da procurargli quell’asfissia posturale che ha poi determinato l’esito fatale, lasciandolo steso per terra fino all’arrivo del 118, quando era già palesemente morto».
Un caso, quello di Federico, tenuto aperto dalla tenacia di una famiglia che non si è accontentata della versione iniziale di una morte per droga e ha lottato per far partire le indagini, tra macchie di sangue che sparivano, brogliacci manipolati, versioni contraddittorie, testimoni reticenti e comunicazioni date in ritardo. Le anomalie sono talmente tante che è stata aperta un’inchiesta bis per falso e abuso. L’iscrizione nel registro degli indagati dei quattro agenti è arrivata solo nel marzo 2006. Quando il pm titolare dell’inchiesta lascia per motivi personali, subentra Proto che finalmente avvia le indagini. Il processo è iniziato nell’ottobre 2007, due anni dopo la tragedia. «Da cittadina credevo che la giustizia fosse qualcosa di dovuto. Invece già arrivare in aula è stato un enorme risultato», commenta la madre di Federico. «Come dice sua mamma, Aldro è stato ucciso due volte», fa notare Andrea Boldrini, uno degli amici che passò con lui l’ultima serata. «Perché da quando è morto continuano a infangarlo. A ogni udienza sembra lui l’imputato, non i quattro agenti. Fin da quando siamo stati convocati dalla polizia, volevano che dicessimo che era un tossico». Francesco Caruso, giudice monocratico nonché presidente del tribunale, ha imposto un calendario serrato e ascolta attentamente tutte le versioni illustrate in aula. In autunno, con la sentenza, sapremo se in questo Paese è normale non sopravvivere a un controllo di polizia.
4 luglio 2008
di Sofia Basso da LEFT
Quattro poliziotti armati di manganello e un ragazzo che muore solo, ammanettato, faccia a terra. Hanno provato a negare tutto, gli agenti imputati per l’omicidio colposo del giovane Federico Aldrovandi. Ma non hanno potuto smentire il tragico epilogo di quell’alba del 25 settembre 2005, quando il diciottenne ferrarese fu fermato da una pattuglia di polizia che lo trova vivo e lo lascia morto sull’asfalto di un’appartata via della cittadina estense. Parlano per la prima volta i quattro agenti, dopo mille giorni di ostinato silenzio e nove mesi di processo, ma non si preoccupano di offrire una spiegazione verosimile dell’accaduto. Una dinamica «incredibile» anche per loro, che giurano che Federico «stava benissimo» prima dell’intervento dei sanitari che ne constatano il decesso e dell’arrivo dei medici legali che lo fotografano livido e tumefatto in una pozza di sangue. Non hanno idea di come si sia procurato le ferite alla testa e allo scroto, dichiarano in aula il 26 giugno scorso: «Forse quando finisce a cavalcioni sullo spigolo della portiera dell’auto e poi cade in avanti, per poi rialzarsi come se niente fosse». Eppure due dei loro sfollagente quella mattina si spezzano all’altezza del manico. E la chiamata alla centrale del capo pattuglia Enzo Pontani è inequivocabile: «L’abbiamo bastonato di brutto. Adesso è svenuto, non so… È mezzo morto». «Una frase detta così, una maniera di dire che non significa niente - si giustifica l’interessato, incalzato dal pm Nicola Proto - anche l’Italia contro l’Olanda è stata bastonata di brutto». Capelli biondi fluenti, tono sicuro, Pontani ci tiene ad aggiungere che sarebbe «assurdo colpire una persona distesa». Eppure è proprio quello che i testimoni hanno visto: quattro agenti di polizia che si accaniscono sul ragazzo anche quando è a terra e implora aiuto.
Bello, alto, magro, Federico viene descritto da Pontani, una decina di chili più del ragazzo e 15 anni di esperienza sulla strada, come un «energumeno di 100 chili, scuro, con il collo taurino e gli occhi fuori dalla testa», che sbuca all’improvviso dall’ombra di un parchetto urlando e ringhiando per aggredirlo con sforbiciate, calci e pugni. Lui li schiva tutti. «Sembrava che avesse voluto mangiarmi la testa», precisa per evocare la pericolosità del giovane, disarmato e incensurato, seppure in stato d’agitazione, come riferì la signora che chiamò il 112, spaventata dalla presenza di un giovane «che sbatteva dappertutto». Per rincarare la dose, Pontani aggiunge un particolare mai emerso prima: durante la colluttazione, Aldrovandi avrebbe addirittura tentato di sfilargli la pistola. Un dettaglio che non compare neppure nella relazione di servizio. Anche Luca Pollastri, il compagno di volante di Pontani, più che di uno studente che rincasa dopo una nottata con gli amici in un centro sociale di Bologna dove, certo, girava anche qualche acido, racconta di una «furia scatenata» che avanza «con aria minacciosa», urlando «a denti stretti e bocca aperta». Era «carico, digrignava i denti», gli fa eco Paolo Forlani, della seconda volante, intervenuta quando la prima chiese rinforzi. «Erano più ringhi che urla. Aveva gli occhi sbarrati. E fissava... Sembrava un automa», ribadisce la sua collega di pattuglia, Monica Segatto, che si presenta pallida e tesa al banco degli imputati.
Deposizioni fiume, quelle dei quattro agenti che fino a quel momento si erano avvalsi della facoltà di non rispondere, mirate però più a smontare i capi d’accusa che non a convincere gli ascoltatori. Più volte, infatti, dal fondo della torrida e strapiena aula B del tribunale di Ferrara si solleva un brusio di incredulità. Come quando Pontani racconta che lo sfollagente del collega Forlani si rompe per un calcio di Federico. Il secondo manganello, dichiara Pollastri, si spezza quando il poliziotto cade a terra assieme al ragazzo nel tentativo di immobilizzarlo. Loro, sostengono, non l’hanno mai colpito, se non alle gambe. Soprattutto, i quattro imputati insistono nel dire che l’ambulanza la chiamarono subito anche se arrivò solo quand’era troppo tardi e che Aldrovandi non ha mai dato segni di sofferenza. Anzi, il loro timore è sempre stato che si rialzasse. Se non usarono il defibrillatore che avevano in dotazione fu perché più volte avevano verificato che respirava. Eppure la dottoressa fu chiarissima nella sua deposizione: quando il 118 intervenne, il cuore aveva smesso di battere da parecchi minuti e infatti i tentativi di salvarlo furono vani.
Uno dopo l’altro, gli imputati negano che il giovane chiedesse aiuto perché non riusciva più a respirare. Scuote la testa con sofferenza muta, Lino Aldrovandi, padre di Federico, che segue il processo in piedi, appoggiato contro il muro. Anche Patrizia Moretti, determinata nella sua richiesta di verità e giustizia per il figlio fin da quando impedì l’archiviazione del caso aprendo un blog, fatica ad ascoltare gli agenti coinvolti nella morte del suo Federico: «Non ci aspettavamo niente dalla loro deposizione. Però fa male lo stesso, fa molto male. Nel loro racconto sembrano accantonare, dimenticare, quello che hanno fatto, l’effetto di quelle loro azioni che ritengono tanto professionali. Non gli ha mai nemmeno sfiorato l’idea di dire “mi dispiace”. La cosa che mi ha addolorata di più, in questa versione paradossale, è stato quando hanno detto che gli tenevano la mano sulla schiena per fargli sentire la loro presenza. Purtroppo l’ha sentita eccome. Sappiamo, e gli effetti ne sono la prova più grande, che l’hanno schiacciato a terra finché non è arrivata l’ambulanza».
La linea della difesa non convince nemmeno la parte civile: «Da agenti di polizia si poteva pensare che dessero una spiegazione credibile di quello che è accaduto, invece si sono trincerati dietro risposte che respingono a tutto campo i profili dell’accusa senza preoccuparsi di un racconto che anche un elementare vaglio di buon senso fa ritenere del tutto inverosimile», dice l’avvocato Alessandro Gamberini, che sostiene la famiglia assieme a Fabio Anselmo, Riccardo Venturi e Beniamino Del Mercato. «La verità è che, comunque si difendano, la coperta è troppo corta perché riguarda il prima, il durante e il dopo: gli agenti non hanno affatto chiesto nell’immediatezza l’ambulanza, hanno bloccato Federico in una forma così violenta e compulsiva da procurargli quell’asfissia posturale che ha poi determinato l’esito fatale, lasciandolo steso per terra fino all’arrivo del 118, quando era già palesemente morto».
Un caso, quello di Federico, tenuto aperto dalla tenacia di una famiglia che non si è accontentata della versione iniziale di una morte per droga e ha lottato per far partire le indagini, tra macchie di sangue che sparivano, brogliacci manipolati, versioni contraddittorie, testimoni reticenti e comunicazioni date in ritardo. Le anomalie sono talmente tante che è stata aperta un’inchiesta bis per falso e abuso. L’iscrizione nel registro degli indagati dei quattro agenti è arrivata solo nel marzo 2006. Quando il pm titolare dell’inchiesta lascia per motivi personali, subentra Proto che finalmente avvia le indagini. Il processo è iniziato nell’ottobre 2007, due anni dopo la tragedia. «Da cittadina credevo che la giustizia fosse qualcosa di dovuto. Invece già arrivare in aula è stato un enorme risultato», commenta la madre di Federico. «Come dice sua mamma, Aldro è stato ucciso due volte», fa notare Andrea Boldrini, uno degli amici che passò con lui l’ultima serata. «Perché da quando è morto continuano a infangarlo. A ogni udienza sembra lui l’imputato, non i quattro agenti. Fin da quando siamo stati convocati dalla polizia, volevano che dicessimo che era un tossico». Francesco Caruso, giudice monocratico nonché presidente del tribunale, ha imposto un calendario serrato e ascolta attentamente tutte le versioni illustrate in aula. In autunno, con la sentenza, sapremo se in questo Paese è normale non sopravvivere a un controllo di polizia.
4 luglio 2008
Iscriviti a:
Post (Atom)